La voce che si incrina, lo sguardo che si abbassa e “Io sono in debito con questa gente. Mi hanno aspettato, mi hanno accolto con un affetto incredibile quando non ero nessuno e per due anni non ho potuto giocare. Questa immagine era solo…”
Esita qualche istante Roberto Baggio prima di terminare la frase, prima di dire che quella sciarpa raccolta sul terreno del Franchi era il suo modo di dire grazie. Grazie e scusate. Lui in quell’estate del 1990 alla Juventus non ci sarebbe voluto andare: quando giochi per il puro gusto di giocare a pallone e perché nel calcio risiede la tua vera natura sei disposto ad abbracciarne anche le sofferenze, a sposarne le battaglie più difficili. Poco importa se nella gara a chi arriva primo lui fino a quel momento era rimasto seduto tra quelli che ci avevano solo provato, se in quella notte di Avellino lui non era con quelli che festeggiavano. Ci avremmo provato ancora una volta, di nuovo insieme. Forse solo regalando un trofeo importante a Firenze, “Baggino” avrebbe potuto prendere in considerazione l’idea di lasciarla, sentendo l’animo e con il cuore un po’ più leggeri.
Che Ranieri Pontello dopo anni abbia ammesso molti dei retroscena nascosti dietro la cessione di Roberto Baggio alla Juventus, poco importa. A Baggio, che si sentiva di fatto risucchiato in una situazione più grande di lui dove la sua volontà, che doveva essere al centro della trattativa, era finita con l’essere un cavillo facilmente aggirabile e a Firenze che in un giorno di Maggio salutava per sempre quel numero 10 che aveva aspettato, ammirato e amato con il più sincero dei sentimenti. “Io non avrei voluto andarmene, eppure mi sentivo colpevole per quello che stava accadendo. Tanta gente è finita all’ospedale per quegli incidenti. Una magra consolazione è che alla fine questa cosa è uscita ma io mi sono portato il peso per tanti anni…”
I giorni che precedettero la partenza di Baggio da Firenze sono confusi e dolorosi. Una città così fiera e orgogliosa che sostiene la sua squadra ma che riserva l’autentico dolore “solo per la maglia”, finisce col fare di un addio una rivoluzione. Era finita malissimo, nel modo peggiore di tutti perché è vero, la storia della Fiorentina sarebbe continuata così come quella del suo numero 10, ma che dolore vederlo indossare quella maglia. Che dolore conoscere quella che era l’effettiva volontà del giocatore, sapere di dover ancora piegare il capo al volere dei più forti. Forse sarebbe stato meglio che lo avesse voluto lui quel trasferimento. La rabbia avrebbe preso il posto del rammarico e con l’arrivo di Batigol, Firenze sarebbe tornata a fare l’orgogliosa e a Baggio non ci avrebbe più pensato.
Ma no, non era il finale adatto per la nostra storia. La storia di un calciatore e di una tifoseria che ben conoscono gli scherzi di cui è capace il destino, che si sono così legati perché sì, vincere è bellissimo, ma non è e non sarà mai l’unica cosa che conta. Conta come si reagisce e come si rimane quando le cose non vanno come si voleva.
Non importava lo dicesse Pontello e per quanto ci abbiano fatto sorridere il cuore, le parole di Baggio al Festival dello Sport di Trento, i tifosi della Fiorentina le conoscevano già… certo leggere nelle parole di qualche giornalista che commenta le dichiarazioni un po’ di imbarazzo è divertente, certo, in un momento storico così delicato per la storia della Fiorentina quelle parole dette da Roberto Baggio (non un numero 10 a caso…) possono avere un grande valore… Ma Firenze lo sapeva. Lo sapeva in quei disperati giorni di Maggio, lo sapeva dopo aver visto la freddezza negli occhi e nei gesti della sua presentazione a Torino ed è rimasta senza fiato quando pochi mesi più tardi più che festeggiare la vittoria contro la Juventus festeggiava l’amore che non passa. Baggio che si rifiuta di calciare il rigore che De Agostini fallisce e che davanti alla panchina della Fiorentina raccoglie una sciarpa viola e la porta via con sé.
Non sappiamo se per Firenze ci sarà ancora un altro Baggio ma sicuramente per Roberto non ci sarà più un’altra Firenze, un altro “Artemio Franchi”, dove può non aver vinto come a Torino, può non aver sentito il peso del blasone come a Milano ma dove ha respirato la meraviglia di giocare a calcio. Firenze dove è stato sì un artista, dove ha mostrato il suo essere “Divino” ma dove è e rimarrà per sempre “Baggino, la città che oltre ai ricordi, le giocate e i goal, conserva probabilmente la sua “gioventù” e non soltanto quella anagrafica. Auguri Roberto!
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