Quando il 21 Novembre è apparso sulla pagina Facebook di Mondo Futbol il post in cui si annunciava la fine di quell’ avventura editoriale partita tre anni fa, ho provato un grandissimo dispiacere poiché, per me, si trattava prima di tutto di un grande riferimento. Il tipo di testata giornalistica per cui avrei voluto avere le competenze necessarie per poter collaborare.
Un modo di raccontare il calcio attraverso studio, attenzione e rispetto dei ruoli e delle differenze. Un linguaggio positivo che caratterizza un format moderno, interattivo e con contenuti editoriali di grande qualità: ho pensato quindi che avrei potuto chiedere al Direttore Responsabile di Mondo Futbol, Carlo Pizzigoni, l’ intervista che da tanto avrei desiderato fare. Collaboratore di Sky, giornalista e fondatore di Mondo Futbol, ed autore con Federico Buffa di “Storie Mondiali: un secolo di calcio in 10 avventure” e “Nuove Storie Mondiali”. Per la casa editrice Sperling & Kupfer ha anche pubblicato nel 2016 “Locos por el Futbol”, una vera e propria dichiarazione d’amore al calcio Sudamericano, un racconto di sport, società e storia.
Mondo Futbol è l’esempio di come il calcio possa essere una storia raccontata con competenza e analisi e esaltandone la sua essenza di sport popolare”. Un’avventura temporaneamente (spero) interrotta ma che è partita con quali obiettivi?
Il progetto che avevamo in mente era appunto legato alla convinzione che il calcio debba essere raccontato attraverso lo studio e l’analisi: studiare il calcio e la cultura del calcio per capire come questo sport sia entrato nel cuore e nella storia di così tante persone. Ritengo sia importantissimo viaggiare, vivere in prima persona certe emozioni, certi contesti. Questo lo dico da giornalista che all’inizio della sua carriera non aveva certo risorse illimitate per poter assistere agli eventi più importanti del panorama calcistico internazionale. Ho fatto sacrifici per fare il giornalista, per assistere per la prima volta alla Coppa d’Africa ho fatto di buon grado un altro lavoro nei mesi precedenti. Ecco, credo che senza passione e senza umiltà sia difficile avere attenzione e sia facile cadere anche nelle critiche superficiali. Credo che non si debba mai dimenticare il rispetto dei ruoli, nessun giornalista per quanto preparato potrà mai saperne di più su una squadra di colui che la allena. Questo non vuol dire non sporcarsi le mani, anzi, significa lavorare ancora di più!
E’ difficile portare nel contesto televisivo questa idea di giornalismo?
Difficilissimo. Il giornalismo sportivo in televisione ha un linguaggio che deve essere necessariamente “svecchiato” e un approccio troppo impersonale. I commenti pre e post partita si somigliano praticamente tutti e si finisce col dare una visione troppo limitata del calcio a quello che è la partita in sé stessa. Questa ovviamente è la mia opinione e non vuole essere una critica, però ribadisco il concetto per il quale il calcio non può essere semplicemente letto come quello che accade in campo nei 90′ che si commentano. Ci vuole studio, analisi, voglia di indagare veramente tutti gli aspetti di quello di cui stiamo parlando. Quando sento colleghi dare giudizi affrettati, critiche superficiali o pareri sbrigativi mi dispiace: penso che chi fa giornalismo debba veramente cercare di far capire all’esterno quello che succede, rappresentare il collante tra il campo e gli appassionati.
Anche perchè si rischia di ridurre il calcio allo svilente concetto che ne danno i suoi detrattori più beceri “22 uomini in pantaloncini corti che rincorrono una palla”…
Le storie di calcio sono sempre legate alle storie degli uomini. Il calcio non è improvvisazione e merita rispetto. Le interviste agli allenatori per esempio spesso diventano polemiche o banali: a me da giornalista non interessa il rapporto, l’amicizia con un allenatore ma voglio comunicare a lui per primo che io sono attento e interessato al lavoro che svolge sul campo e quindi instaurare con lui un dialogo. Non credo sia necessario vedere un allenamento per capire quale è la filosofia di calcio di un tecnico: penso anzi che molti giornalisti non avrebbero nemmeno gli strumenti per valutare un allenamento di Serie A.
Il calcio giovanile è sempre un bel palcoscenico…
Sicuramente si. Dall’inizio della mia carriera seguo le squadre giovanili principalmente di Inter e Milan ed è un contesto dal quale si impara molto anche per quanto riguarda lo studio. E’ nei campionati giovanili che si ha la possibilità di conoscere le storie dei giocatori, la loro evoluzione, i loro momenti di difficoltà e il loro modo di affrontare questi momenti. E’ facile fare i complimenti a Biraghi per la convocazione in Nazionale e per essere considerevolmente migliorato nell’ultima stagione, guardare i dati su wikipedia e indicarlo come uno dei giocatori emergenti più interessanti: io di Cristiano ricordo benissimo i tempi della sua esperienza in nerazzurro. Giovanissimo, motivato e con grande forza d’animo anche nei momenti in cui le cose non andavano bene e l’Inter lo ha ceduto in prestito.
Ho vissuto dal vivo svariati Mondiali under 20, Sudamericano under 20, Europeo under 17 e under 19. Viaggio spesso inseguendo il calcio, lì si trovano le storie, lì si conoscono i giocatori: raccontare calcio è raccontare storie di uomini e io gioco più bello del Mondo.
Il tuo collega e amico Daniele Adani ha portato negli studi televisivi una nuova dialettica sportiva e una nuova capacità analitica…
Stimo molto il lavoro di Lele: anche essere stati calciatori ad alti livelli non garantisce una carriera da perfetti commentatori di calcio. Lele ha sempre cercato di capire il calcio nella sua complessità, fin da quando lo praticava e questo lo ha portato a non banalizzarlo alla tattica e alla retorica. I suoi sono approfondimenti figli di un grande studio, di un’attenzione particolare alla componente umana, alle dinamiche e ai tempi di gioco: Lele è un innamorato del calcio, anzi come direbbe lui del “calcio vero”. Si vede e si sente. È competenza e passione, nessuno è come lui.
Nelle scorse settimane ho letto un articolo del 2015 da un sito piuttosto famoso dove il giornalista riportando vari pareri, si sbilanciava in una critica verso lo “storytelling”. Nell’articolo ci si chiedeva infatti “se alcuni giornalisti fossero dei cronisti o diventati dei professionisti del teatro per il loro modo di raccontare le storie, ricche di retorica persuasiva”.
Non entro nella polemica perchè sinceramente non ho ancora capito cosa sia questo “storytelling”. Credo che il giornalismo sia una professione dove è importante lavorare con integrità, studio e competenza, ma perchè definire “storyteller” un giornalista che non si limita alla cronaca ma scende nei particolari, analizza il contesto e si spende perchè la comunicazione con il lettore sia il più coinvolgente possibile? Certo, quando questo tipo di sforzo è fatto con superficialità, senza viaggiare, senza voler essere curiosi, allora ammetto si possa risultare non credibili. Quando ho scritto “Locos por el Futbol” non mi sono limitato a parlare soltanto di calcio sudamericano perchè sapevo che il calcio è un aspetto fondamentale nella cultura sociale di quei Paesi dove questo sport non è nato ma dove è nata la passione.
Veniamo appunto al tuo rapporto con il Sud America…sei tornato da pochissimo da un viaggio sicuramente molto interessante, quello in Argentina, dove eri andato per assistere alla gara di ritorno del Super Clasico tra River e Boca. Cosa puoi dirci di quella sera al Monumental?
Sono circa quindici anni che vado in Sud America, ovviamente l’ultimo viaggio aveva grandi aspettative visto che a Buenos Aires andava in scena la gara di ritorno del Superclasico, finale di Copa Libertadores: parlare di cosa è accaduto presuppone aprire un capitolo piuttosto complesso che ha a che fare con dinamiche che a mio avviso non sono troppo legate al calcio. Unisco semplicemente i puntini… la valenza della partita era la più alta di sempre, ma non era certo il primo incontro della storia tra River e Boca, ergo la polizia doveva essere pronta a gestire un evento del genere. Il tifo argentino è appassionato, un amore totale e totalizzante e si conoscono anche quelle che sono le dinamiche legate alle Barras Bravas ossia le frange più violente del tifo argentino che purtroppo si sono trasformate in vere e proprie organizzazioni criminali ma ci sono situazioni stranissime legate anche ai giorni precedenti della partita come il blitz effettuato dalla polizia nelle abitazioni di alcuni capi ultràs del River, in cui sono stati sequestrati circa 300 biglietti e 7 milioni di pesos in contanti. Un’operazione effettuata a poche ore dalla partita che ovviamente poteva essere fatta scattare prima.
Il giorno della finale volevo vivere la partita in mezzo ai tifosi quindi e mi sono avviato verso lo stadio attraverso i regolari varchi che erano stati allestiti per gestire il pre-filtraggio e dovevano essere aperti dalle ore 13:00: arrivato in prossimità del varco di Avenida Quinteros ci siamo accorti che quello era l’unico passaggio ancora chiuso. La gente si è iniziata ad ammassare in fila, una situazione diventata insostenibile per ore e soprattutto un provvedimento immotivato. Da quale varco è stato fatto passare il pullman del Boca? Da quello, ossia dall’ultimo aperto. Un pullman per altro normalissimo, non blindato, con vetri non infrangibili e soprattutto con lo stemma gigantesco del Boca Junior. Da lì ovviamente le persone che avevano atteso per tanto tempo hanno iniziato a lanciare di tutto contro il bus e la polizia ha reagito caricando la folla con i lacrimogeni. E’ assolutamente inesatto parlare di tifosi armati di lacrimogeni che sarebbero addirittura entrati all’interno dell’autobus.
Io ero già dentro stadio e posso raccontare di un’atmosfera di attesa bellissima ed emozionante…
Finale di Copa Libertadores. Il Superclasico più importante di sempre. Che squadre si fronteggiavano?
Si fronteggiano una squadra di grandi giocatori, una società strutturata e politicamente molto potente contro una squadra coraggiosa, non molto organizzata dal punto di vista societario ma di grande tradizione, capace di rappresentare una scuola di calcio fin dagli Anni ’40.
Il River propone un calcio innovativo, i giocatori del River gli riconosci per il DNA: non sono individualisti, si mettono a disposizione e sono dei grandi interpreti dei valori che rappresentano. Penso a Higuain, a Crespo… A Firenze, German Pezzella è un esempio perfetto. Anche la storia del Boca è fatta di grandi campioni ma Maradona, Riquelme, Samuel e Batistuta, non sono nati calcisticamente lì.
C’è una squadra sudamericana in particolare alla quale tieni?
Il Racing. E’ una bella storia quella che mi lega a questa squadra, un episodio che mi ha confermato la passione e la tenerezza che unisce i sudamericani al futbol. Un giorno un taxista si è proposto di offrirmi la corsa in taxi nonostante non avessi con me il portafoglio: quando ho chiesto su come avrei potutto rimborsarlo appena ne avessi avuto la possibilità, lui mi ha detto che avrei dovuto fargli una semplice promessa: diventare tifoso del Racing.
Spiando sul tuo profilo Instagram ho visto che, nonostante tu abbia raccontato insieme a Federico Buffa 13 storie Mondiali, nel tuo cuore la Coppa del Mondo del 2014 in Brasile ha un posto particolare…
Ho vissuto in Brasile per un breve periodo di tempo che comunque è bastato per farmi pensare che il nord-est del Brasile, il Maranhao, siano un posto importante nel mio cuore e considerarlo casa mia. E’ una delle zone più povere del Paese dove le persone hanno un’umanità e una generosità commovente: come ho già detto il calcio non è nato in Sud America ma lì è nata la passione quindi ovviamente vivere un Mondiale in Brasile era un qualcosa di unico. Un gran numero di tifosi delle squadre latino americane hanno potuto vivere dal vivo l’atmosfera del Mondiale, creando un’onda di tifo magnifica. Calcisticamente si è raggiunto un livello tecnico elevatissimo, è stato chiaro fin dalle fasi di qualificazione che non ci sono più qualificazioni scontate e che ad andare avanti sono solo progetti tecnici interessanti. È stata un’esperienza lavorativa e umana che mi ha dato molto: mi ha regalato un collega e un amico come Lele Adani, ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato a parlare di calcio e ci siamo subito trovati.
L’Inter è la squadra del cuore, un’eredità di famiglia. In un intervista hai detto che pur essendo interista non sopporti “l’interismo degli ultimi 20 anni”. Puoi spiegarmi meglio?
L’Inter era la squadra del cuore di mio papà, è legata alla mia infanzia e non potrò mai dimenticare la meraviglia delle prime volte allo stadio. L’Inter ha una storia antica e bellissima che mi ha sempre affascinato, personalmente credo che tutti i tifosi dovrebbero conoscere e amare la storia del loro club per potergli volere ancora più bene. Adesso non ci si sofferma molto su questi aspetti, si pensa a criticare, a dare voti, a parlare di mercato. Non sopporto il calcio che diventa una fucina di offese e critiche e neppure quello che si perde in gossip. Ripeto, credo che il calcio sia prima di tutto uno sport popolare che appartiene a chi lo gioca, a chi lo ama e a chi lo studia, non un qualcosa di elitario e becero.
Adesso faccio il giornalista e ovviamente mi rivolgo a tutti, cerco di condividere con chi mi legge e chi mi ascolta le mie considerazioni e le emozioni che provoca in me il bel calcio.
Chiudiamo parlando di allenatori: hai detto che secondo te il più bravo è Guardiola ma quello che più ami è Bielsa…
Guardiola è geniale, ha riscritto il calcio e questo è un merito che rimane oltre i trofei. Sa cambiare la mentalità di giocatori che hanno già vinto tutto prima di lui, una capacità rara. Bielsa ha una carica di valori umani incredibile. Quando pareva dovesse approdare alla Lazio ho un po’ temuto che il calcio italiano non se lo meritasse: si sarebbe dato spazio ad aneddoti e retoriche trite su Bielsa, senza concentrarsi sulla vera essenza del suo calcio, della sua filosofia. In Italia l’unico tecnico che gli si può paragonare è stato quasi dimenticato dal grande calcio: sto parlando di Silvio Baldini, un professionista che ha dimostrato con i fatti di allenare per passione, una passione che è stato capace di trasmettere a tutti i suoi giocatori, creando a Carrara un miracolo sportivo. Non dimentichiamoci che la Carrarese è prima del suo girone nel campionato di Lega Pro con una squadra dal valore tecnico inferiore rispetto alle avversarie.
In Serie A riconosco a De Zerbi doti di grande comunicatore: propone un idea di calcio equilibrata ma fortemente personale e quando parla dice cose importanti, non è mai né retorico né ruffiano. Basti pensare al suo Benevento che non ha mai giocato da squadra retrocessa e ha lavorato fino all’ultimo giorno.
Photo @CarloPizzioni